Diamoci del Nord - Un anno sesquipedale
http://www.diamocidelnord.it/
Un libro da leggere, recensione di Vittorio Feltri
Mi piace La parola sesquipedale.
Bisogna pronunciarla piano: il sapore arriva prima ancora che se ne conosca l’etimologia. A me fa venire in mente le letture della mia giovinezza quando il martedì compravo il «Guerìn Sportivo» per godermi Gianni Brera. Fu allora che la assaggiai come una primizia. Imparai che per descrivere un calciatore, anzi un pedatore il quale avesse mancato un gol enorme, immenso, ma insieme qualche altra cosa inesprimibile ma da spantegarsi, scompisciarsi — non so trovare di più — Brera si faceva capire da tutti scrivendo “sesquipedale”. Si aveva l’immagine seducente di una macchina lucente, di una corazza d’argento, qualcosa di imponente e sacro. Per cui l’errore era ancora più marchiano, una specie di eresia da scomunicati. A rovescio, inteso cioè in senso buono, sesquipedale poteva essere applicato a un gigante capace di altruismo quasi disumano. Giusto, sbagliato? Per sicurezza correvamo a sfogliare il vocabolario. E ci dava ragione.
Così il sottotitolo è il più bel autoritratto che poteva fornire di se stesso Diego Gelmini: l’enormità buona e insieme potente, la furia che si agita e sorride. Lui è sesquipedale. Non nel senso della grossolanità, ma quando mai, bensì in quello della mescolanza in lui realizzata tra un Obelix del Lambro e un retore latino che ha abbandonato l’Urbe per rientrare nella sua terra.
La faccia e la mole esprimono questo impeto colto e paesano. La prosa segue, e gli somiglia persino nel sopracciglio.
In questo libro si respira l’aria delle terre padane. Il sentimento della vita che abbiamo dentro e che è stato calpestato da un tot d’anni.
Il sentimento della vita che abbiamo dentro e che è stato calpestato da un tot d’anni. Non so se datare questo scempio della nostra anima dall’unità d’Italia – che pure fu voluta da molti garibaldini delle valli lombarde nella sciagurata spedizione dei Mille – o andare fino agli anni dell’invasione delle legioni romane. Certo è che con l’inizio dell’avventura leghista io sperai che fosse squillata se non la tromba almeno il piffero della riscossa. Mamma mia. Io però non disarmo. Gelmini non si arrende. Ma per lottare bisogna saper guardare la realtà senza pitturarla di rosa. Il poterazzo romano ha mostrato una capacità di corrompere, con le sue cadreghe vellutate e i supplì della buvette, anche gli uomini scesi sul Tevere con la spada di Brenno in pugno. E siamo ridotti malaccio.
C’è chi ha resistito alle seduzioni. E il Gelmini è un tipo di questa fatta: rutilante e generoso, ironico e capace di restituirci un po’ di sano desiderio di menare le mani per poterci liberare dal vassallaggio dello Stato centralista. Mi rendo conto. Uso un linguaggio poco consono a un direttore di quotidiano nazionale. Ma se queste pagine, come spero, capitassero in mano a qualche signore del Sud, gli direi: dai che siamo fratelli, facciamo fuori non la nostra patria, ma la matrigna, questa repubblica burocratica fondata sul lavoro degli altri, cioè dei sudditi.
La nostra natura settentrionale ci fa essere dei polli. Lo so, siamo brava gente. Ma almeno cerchiamo d’ora in poi di non farci più fregare le uova. Gelmini ci sprona: con questo libro ci diverte ma ci sprona anche a diventare difensori della nostra tradizione crocifissa (nei due sensi della parola). Chiara questa verità. Anzi enorme, immensa. Sesquipedale.
Vittorio Feltri