Grandi Purghe all’ombra del Santuario
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- 10 aprile 2018 Saronno
Grandi Purghe all’ombra del Santuario, le vicissitudini della Giunta di Saronno Le vicissitudini della ricordano all’appassionato di storia moderna quelle del gruppo dirigente dell’Unione Sovietica subito dopo la morte di Lenin. Per fortuna gli eventi si somigliano come una farsa può assomigliare a una tragedia: a Saronno non si uccide nessuno, tutt’al più si caccia via dalle poltroncine della sala Vanelli. Però alcune vaghe affinità ci sono, non lo si può negare. ...
Grandi Purghe all’ombra del Santuario, le vicissitudini della Giunta di Saronno
Le vicissitudini della ricordano all’appassionato di storia moderna quelle del gruppo dirigente dell’Unione Sovietica subito dopo la morte di Lenin. Per fortuna gli eventi si somigliano come una farsa può assomigliare a una tragedia: a Saronno non si uccide nessuno, tutt’al più si caccia via dalle poltroncine della sala Vanelli. Però alcune vaghe affinità ci sono, non lo si può negare. A Mosca i capi del partito, oltre Stalin, si chiamavano Trockij, Bucharin, Kamenev, Zinoviev. Il primo che il dittatore georgiano tolse di mezzo fu Trockij, fatto esiliare e diversi anni dopo, visto che dal Messico dove si era rifugiato continuava a dare fastidio, fatto uccidere da un sicario. Ora bisogna ammettere che l’ex assessore Pellicciotta è assai più graziosa di quanto non fosse il ruvido Trockij, e che non le è stato sguinzagliato contro alcun sicario, ma per il resto le storie si assomigliano. Poi toccò a Kamenev e Zinoviev, giustiziati nel ’36 all’epoca delle “grandi purghe”. Infine a Bucharin, costretto a confessare pubblicamente di essersi avvicinato alle “posizioni controrivoluzionarie” e poi giustiziato a sua volta. Ecco, il mio amico Banfi non sarà condannato alla pena capitale, ma la richiesta di dimissioni che pare gli sia stata indirizzata è molto simile a quella di un riconoscimento di colpa, quindi a una confessione. C’è un altro aspetto della vicenda che ricorda i processi staliniani. Essi cominciavano con la raccolta di documenti a carico dei futuri imputati, documenti che di solito consistevano in dichiarazioni di terze persone che accusavano Tizio piuttosto che Caio di “attività controrivoluzionarie”. Queste dichiarazioni non erano estorte con violenze fisiche: bastava che l’aparatcik (funzionario di partito) addetto a tale compito facesse delle pressioni, in sostanza delle minacce, per ottenere ciò che voleva. Il più delle volte non c’era neppure bisogno delle pressioni, tale era il potere dell’amministrazione (quella sovietica, non quella leghista) di incutere spavento. Ebbene anche sotto questo aspetto l’analogia è evidente: pare che preventiva alla decisione del Sindaco ci sia stata una formale “dichiarazione di sfiducia” nei confronti di Banfi da parte delle segreterie dei partiti, cioè a dire della Lega e di FdI. Tale dichiarazione è stata libera e spontanea? Non sappiamo quanto. Forse, allora, estorta ai segretari di questi partiti con i metodi brutali in uso nelle carceri della Lubianka, su istruzione del famigerato Berija? Riteniamo di no. Sono stati allora minacciati di deportazione nel campo siberiano di Kolyma, a 70° sotto lo zero? Neppure questo crediamo.
Tanto più quelle firme, se ci sono state, convocano i loro autori non di fronte ai giudici di Stalin, ma di fronte a un diverso tribunale: quello della loro coscienza. E tanto più chi si è rifiutato di apporle potrà guardarsi serenamente allo specchio, al mattino, regolandosi la barba.