Rimini, il discorso del Presidente Sergio Mattarella
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- 21 agosto 2016 Istituzioni notizie importanti
il discorso del Presidente Sergio Mattarella Vi ringrazio molto dell'accoglienza e di tanta cordialità. Ringrazio la presidente della Fondazione Meeting e il presidente della Fondazione Sussidiarietà per le parole che mi hanno rivolto e ringrazio molto don Carrón per aver voluto aggiungere il suo saluto. A voi giovani presenti e a quanti altri, con il loro generoso servizio volontario, rendono possibili queste giornate di incontro e di dialogo a Rimini, voglio dire che siete una risorsa prezi...
il discorso del Presidente Sergio Mattarella Vi ringrazio molto dell'accoglienza e di tanta cordialità. Ringrazio la presidente della Fondazione Meeting e il presidente della Fondazione Sussidiarietà per le parole che mi hanno rivolto e ringrazio molto don Carrón per aver voluto aggiungere il suo saluto. A voi giovani presenti e a quanti altri, con il loro generoso servizio volontario, rendono possibili queste giornate di incontro e di dialogo a Rimini, voglio dire che siete una risorsa preziosa per la nostra società. Sono qui anzitutto per ringraziarvi. E per incoraggiare, insieme a voi, tutti i giovani che sono disposti a mettersi in gioco per una speranza, per una passione, per una buona causa. La Repubblica italiana ha appena compiuto 70 anni. Anch'essa è giovane. I tempi biologici sono più lunghi per le istituzioni. Ha già affrontato e superato prove impegnative. Per diventare più forte ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l'altro, di voglia di futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte. Ovviamente si confronteranno, come bene e come giusto idee e soluzioni diverse, ma l'attitudine dei giovani a diventare protagonisti della propria storia costituisce comunque sempre l'energia vitale di un Paese. Questa spinta vale più di qualunque indice economico o di borsa. La nostra società sta invecchiando e ci sono rischi oggettivi che le potenzialità dei giovani vengano compresse. Dobbiamo scongiurare questo pericolo che minaccia la nostra, come altre, società. Anche per questo - in un tempo di cambiamenti epocali come il nostro - è necessario prestare attenzione e dar spazio alla visione dei giovani. Senza farci vincere dalle paure. Dalle paure antiche e da quelle inedite. Attenti a non cadere nell'errore di ritenere nuove false soluzioni già vissute e fallite nel breve Novecento. Non ci difenderemo alzando muri verso l'esterno, o creando barriere divisorie al nostro interno. Al contrario. Tante nuove diseguaglianze stanno emergendo. Spesso sono proprio i giovani a pagarne il prezzo più alto. Occorre ricominciare a costruire ponti e percorsi di coesione e sviluppo. Occorre rendersi conto che vi è un destino da condividere. Stiamo parlando di condivisione dei benefici e delle responsabilità; e anche delle difficoltà. Condivisione dei diritti e dei doveri. Della memoria del nostro popolo e del suo sguardo verso il futuro. Nel Libro della Sapienza viene ricordato che i figli dei giusti si impegnarono al rispetto di una regola: condividere allo stesso modo successi e pericoli. Dovremmo tener conto, nel nostro Paese, di questa sapienza antica. Viviamo oggi l'epoca dell'io. Intendiamoci: nell'affermazione dell'individuo vi è una intrinseca verità, una crescita della coscienza, una domanda positiva di diritti e di opportunità. Il primato della persona, il riconoscimento della sua integrità e inviolabilità, il principio stesso di uguaglianza tra gli esseri umani hanno tratto alimento da questo percorso storico di affermazione della centralità dell'individuo o, meglio, della persona. L'io non è soltanto identità. È anche dignità, libertà. Libertà che ci è stato ricordato - da Kant a Martin Luther King - trova il proprio limite nella libertà degli altri, di tutti gli altri. Il punto cruciale è che l'io non è autosufficiente. L'io ha bisogno del tu come l'aria per respirare. L'io contiene l'esigenza di diventare un "noi" proprio per fronteggiare e raggiungere quei traguardi che è stato capace di immaginare. Perché il noi è la comunità. Il noi è anche la storia. Il noi è la democrazia. Andare oltre l'io vuol dire realizzarsi in maniera autentica anche come singoli. Vuol dire anche superare il limite del qui e ora, perché il futuro si costruisce soltanto insieme. A volte sembra persino impossibile pensare oltre il contingente. La discussione pubblica, compresa quella politica, è spesso dominata dal presente. Passare dall'io al noi ci permette di guardare più lontano. Ricordo uno scritto di don Giussani, "L'avvenimento cristiano": "L'immoralità - diceva - è l'esperienza di un soggetto umano che non appartiene se non a se stesso. La moralità nasce, invece, come coscienza del proprio compito e insieme dei propri limiti, è l'esperienza di un uomo che viva un'appartenenza a una realtà più grande di sé". L'altro ci conduce meglio al domani. Insieme si consente alla società di pensarsi migliore domani. Naturalmente occorre sempre fare al meglio oggi ciò che è possibile nelle condizioni date, ma al tempo stesso dobbiamo progettare insieme un futuro migliore per noi, i nostri figli e i nostri nipoti: senza questa dualità, senza questo duplice percorso, la politica diventa sterile o ingannevole. Per spezzare la catena dell'autoreferenzialità, dell'egoismo e, in definitiva, dell'impotenza della politica, e del tessuto sociale è necessario dare il giusto valore all'altro. Dare valore al dialogo. Mettere insieme le speranze e l'amicizia. L'amicizia è una leva della storia. Anche per questo è vero che "tu sei un bene per me". L'egoismo non genera riscatto civile. Può dare a qualcuno l'illusione di farcela da solo, mentre altri soccombono in questi mesi abbiamo assistito a un'esplosione di egoismo e abbiamo visto a cosa può condurre l'egoismo senza limiti, con l'assassinio di tante donne. Atti compiuti da coloro che pensano agli altri soltanto come appendici o dipendenza di sé. La tentazione dell'isolamento rischia di pregiudicare anche le grandi opportunità di comunicazione che la scienza ci mette a disposizione, sovvertendone la funzione. Basta pensare alla tendenza di molti di collegarsi sul web soltanto a quelli che la pensano come loro, in circuiti ristretti e chiusi. Ci si illude così che il mondo appartenga soltanto a chi la pensa come noi, riversando spesso su chi la pensa diversamente soltanto astio e livore. Ne risulta cancellato il confronto delle idee, lo scambio di conoscenza, il valore delle esperienze altrui: in una parola la comunità e la sua tensione culturale. Quando l'io perde l'opportunità del noi, tutta la società diventa più debole e meno creativa. La libertà, in realtà, è indivisibile: non esiste se non ne godono tutti. Lo stesso benessere non resiste, non si consolida se non è condiviso. Occorre comprendere che ci si realizza davvero soltanto insieme agli altri e non da soli. È come se il principio " la libertà si ferma di fronte a quella degli altri" venisse assorbito e superato in un più avanzato principio: la libertà si realizza insieme a quella degli altri, si realizza in quella degli altri. Questa non è una considerazione di carattere morale - o, meglio, non è soltanto tale - ma è un dato concreto della vita sociale. È una responsabilità della nostra Repubblica, consacrata nell'art. 3 della Costituzione, che le affida il compito di rimuovere ciò che ostacola di fatto la libertà e la uguaglianza. L'amicizia stessa si fonda sul valore delle differenze. Le differenze ci arricchiscono e ci ricordano il principio di non appagamento. Ci spingono a cercare la verità che è presente negli altri. Nel suo "La bellezza disarmata" don Carrón dedica un paragrafo alla "confusione dell'io" e un altro alla "nostalgia del tu". In quelle pagine si disegna un percorso spirituale ma queste due espressioni, in realtà, raffigurano bene la condizione umana. È questa la prospettiva con cui affrontare il grande tema politico dell'unità. Unità del nostro Paese. Unità dell'Europa. Unità del genere umano intorno ai diritti fondamentali della persona. L'unità non è soltanto una questione di ordinamento giuridico o di solidità istituzionale. L'unità è anzitutto un fondamento etico e sociale comune, trasfuso in sentimenti e comportamenti vissuti. Questa visione è stata impressa, con straordinaria lucidità e lungimiranza, nei principi della nostra Costituzione, contenuti nella sua prima parte. E questo resta un obiettivo della Repubblica, da perseguire nel tempo, mutamento dei costumi, dei bisogni, nell'evoluzione del sistema sociale. Il nostro Paese è segnato da faglie antiche. A queste si sono aggiunte nuove divisioni, quelle prodotte dal naturale mutamento delle condizioni, non sempre regolato in maniera equilibrata, e quelle provocate dalla lunga crisi economica degli ultimi anni. Dobbiamo lavorare con impegno per ricomporre le ferite e rendere l'Italia più robusta, più solidale, più competitiva, più importante per la costruzione europea. L'unità del Paese non è una conquista acquisita una volta per tutte. Passa oggi dalla crescita del Meridione. Dalle concrete opportunità di lavoro per i giovani. Dal contrasto alle povertà e alle diseguaglianze. Dall'occupazione femminile. Dalla conciliazione dei tempi di cura e di lavoro. Da uno sviluppo delle reti sociali e comunitarie, che possono rinnovare e consolidare il welfare senza privarlo del suo carattere universalistico. L'unità del Paese è anche investimento nella ricerca e nei settori strategici, giustizia più efficiente, integrazione e non esclusione di chi è sfavorito dalle condizioni di partenza. Dobbiamo tutti averne cura, avere cura dell'unità e della coesione del nostro Paese. Nessuno può seriamente pensare di farcela da solo. Allargare le divisioni ci rende più deboli. La Repubblica, di cui abbiamo celebrato i settant'anni, è stata una scelta di popolo che ci ha consentito di risalire la china che avevamo percorso in caduta, il baratro nel quale eravamo precipitati negli anni della dittatura, con i lutti e la disperazione della guerra, con le macerie della distruzione. La Repubblica è nata da un referendum, e dunque da un confronto democratico. La divisione degli orientamenti, però, è stata tradotta in una straordinaria forza unitaria. Merito dei nostri padri e delle nostre madri. Merito delle forze politiche e delle classi dirigenti democratiche. Che hanno saputo comprendere, malgrado difficoltà molto grandi (che talvolta vengono oggi sottovalutate), ciò che li univa, al di là dei legittimi contrasti. Questa ricomposizione ha creato sviluppo, diritti, opportunità. Ha ridotto le distanze sociali. Ha promosso conoscenze, cultura, speranze. Un esempio per tutti: la scuola, materia sempre contrassegnata da grandi contrasti che, in buona misura, ne riflettono l'importanza nella vita del nostro come di qualunque Paese. All'inizio degli anni Sessanta quasi la metà degli italiani non aveva neppure il diploma di scuola elementare, soltanto il 15% aveva completato la scuola media- che comprendeva allora l'avviamento- e meno del 6% aveva il diploma di media superiore. Soltanto poco più di un bambino su quattro andava oltre la licenza elementare e molti meno andavano oltre il diploma della media inferiore. La Repubblica ha realizzato, in quegli anni, con uno sforzo comune, ampiamente condiviso, uno dei principali dettati della Costituzione: l'istruzione diffusa e generalizzata in Italia, per tutti e ovunque. Un grande fenomeno di avanzamento sociale, un'autentica pacifica rivoluzione positiva che ha unificato e resa più giusta e progredita la nostra società. Certo, nel complesso, ci sono stati squilibri e contraddizioni nel procedere della vicenda democratica, tuttavia il processo unitario ci ha fatto sentire, malgrado le difficoltà, sempre partecipi della casa comune. Siamo divenuti cittadini corresponsabili - uniti dal suffragio finalmente universale, con il voto alle donne di settanta anni fa - e i traguardi di giustizia, di legalità, di pace indicati dalla Costituzione sono stati avvertiti e vissuti come comuni, pur in presenza di forti contrasti ideologici e politici. La scelta repubblicana ha influito, in grande misura, sulla definizione dell'identità del Paese. La Repubblica ci ha aiutato a ricostruire la nostra storia unitaria e a collegare, sul piano etico e culturale, il primo Risorgimento con il secondo, cioè con la Resistenza e la Liberazione. La Repubblica, con la rinascita del Paese, ha permesso di superare le cesure di questa storia travagliata, su cui, ancora pochi decenni fa, insistevano sentimenti disgiunti e che, invece, le celebrazioni del 150esimo dell'unità d'Italia, così partecipate e sentite, ci hanno restituito come un percorso nazionale di crescita nella libertà e nella coscienza civile. In passato non è stata valorizzata a sufficienza la portata storica della scelta repubblicana. Ciò è stato, allora, suggerito da ragioni di prudenza, e anche dalla saggezza delle leadership politiche, che non volevano accentuare la divisione tra il Nord repubblicano e il Sud monarchico. Si è posto maggiormente l'accento - come era, del resto giusto - sulla scelta per la democrazia e sul fondamento unitario rappresentato dalla Costituzione, la casa comune, come, alla Costituente, la definiva Aldo Moro, di cui quest'anno ricorre il centenario della nascita. La Repubblica, tuttavia, ha contribuito, non poco, a superare i momenti più difficili. Per lunghi anni l'Italia è stata l'unica democrazia tra i Paesi dell'Europa del Sud e non è stato semplice, né scontato difendere questa condizione da pressioni interne ed esterne. Successivamente l'insorgere del terrorismo e l'uso eversivo delle stragi negli anni Settanta è stato combattuto e sconfitto grazie a una unità repubblicana, che ha coinvolto forze diverse, tuttavia solidali attorno ai valori costituzionali. La nostra storia è illuminata da occasioni di unità, da numerosi passaggi di condivisione e di comune responsabilità, che hanno permesso al Paese di compiere salti in avanti, o di evitare drammatiche cadute all'indietro. Gli inevitabili contrasti che animano la dialettica democratica non devono farci dimenticare che i momenti di unità sono decisivi nella vita di una nazione. E che talvolta sono anche doverosi. È un grande merito saperli riconoscere. Un Paese che non sa trovare occasioni di unità, diventa più debole. La democrazia è libertà nel confronto, ed è pure conflitto, ovviamente all'interno dei binari segnati dal diritto e dal rispetto dell'altro. Ma la democrazia è anche paziente. La pazienza della democrazia italiana ha consentito tempi di crescita e di maturazione a culture diverse. L'adesione alla democrazia si acquisisce e si rafforza praticandola, e così è avvenuto anche nel nostro Paese. La Repubblica ha consentito rinnovamento e maturazione, ha permesso un ampliamento delle basi democratiche e il radicamento della democrazia nella cultura nazionale. È bene tenerlo presente, anche per il futuro, dal momento che le democrazie hanno sempre bisogno di essere aperte allo spirito del tempo, di inverarsi nelle diverse condizioni della storia, di accogliere nelle loro istituzioni le innovazioni e le forze vive, di aggiornarsi per rappresentare sempre meglio le istanze popolari e, insieme, per rispondere con efficacia alle domande nuove di cittadinanza che la società pone alle istituzioni. Oggi l'unità, la coesione del nostro Paese è una grande questione connessa all'unità, alla coesione dell'Europa. È una pericolosa illusione rifugiarsi nella dimensione nazionale, sperando così, velleitariamente, di difendersi dal mondo globalizzato. Lo stato dell'Unione Europea non ci soddisfa appieno, è vero. È un'Europa incerta, impaurita, lenta, che ha ridotto la sua capacità di politica lungimirante e coraggiosa. Non è ancora riuscita a risolvere la divergenza tra chi la considera soltanto un'utile cornice entro cui gli Stati collaborano e chi, con maggiore ambizione e senso della storia, la considera un percorso di crescente integrazione politica. La missione di un'Italia consapevole del proprio ruolo - e della validità storica del progetto di integrazione europea - è esattamente quella di contribuire al rilancio dell'Unione. È questo il destino migliore per noi e i nostri giovani. Dobbiamo aprire la strada al futuro, non illuderci di poterci riparare in improbabili trincee. La separazione moltiplica le rivalità, provoca diffidenze e contrapposizioni e questi sono i germi dei conflitti nell'Europa dei secoli scorsi - quelli che Alcide De Gasperi definiva, nel 1951, "germi di disgregazione e di declino, di reciproca diffidenza" - che non possiamo oggi rischiare di far riaffiorare. L'Europa è la dimensione necessaria per affrontare, con umanità ed efficacia, la politica dell'immigrazione e l'accoglienza dei profughi che fuggono dalle violenze e dalle guerre. Tanta strada è ancora da fare. Ci vuole umanità verso chi è perseguitato, accoglienza per chi ha bisogno e, insieme, sicurezza di rispetto delle leggi da parti di chi arriva. Occorre severità massima nei confronti di chi si approfitta di essere umani in difficoltà, cooperazione con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti. Ci vuole intelligenza e visione per battere chi vuole la guerra e la provoca. Senza Europa, da solo, neppure il Paese più forte può farcela a garantire la sicurezza e lo sviluppo che i suoi cittadini chiedono. La portata inedita delle migrazioni suscita apprensione. Si tratta di un'ansia, di una paura comprensibile, che non va sottovalutata. Ma non dobbiamo farci vincere dall'ansia e dobbiamo impedire che la paura snaturi le nostre conquiste, la nostra civiltà, i nostri valori. Quelli per i quali noi europei siamo un modello e un traguardo nel mondo. Vorrei ripetere anche qui che non possiamo deturpare l'immagine dell'Europa, come luogo di libertà, di democrazia, di diritti, per renderla meno attraente. Il tema delle migrazioni, oggi, rende evidente come ci si realizzi davvero insieme agli altri e non da soli. Fino a qualche tempo addietro i continenti erano separati. Mancavano effettiva conoscenza vicendevole e possibilità diffusa di spostamenti. Oggi i mezzi di comunicazione cancellano le distanze, fanno conoscere in tempo reale diversità di condizioni di vita e di benessere e permettono di viaggiare con relativa facilità e velocemente, anche se, come ben sappiamo, per tanti questo avviene subendo pesanti angherie e affrontando rischi gravissimi. Il mondo è cambiato ed è ormai questo. E non se ne può scendere come ipotizzava il titolo di un vecchio film. È cambiato anche sotto altri profili: dalla globalizzazione degli elementi di fondo delle economie ai rapporti demografici. Vi sono Paesi popolosissimi in Africa con un'età media di diciotto - venti anni. Da noi, e in Europa, il tasso di natalità è prossimo o sotto lo zero. I continenti sono, ormai, vasi comunicanti di culture, beni, servizi, persone: il travaso tra di essi è inevitabile. Nessuno può augurarsi che si verifichino spostamenti migratori sempre più imponenti ma così rischia di avvenire se ci si illude di risolvere il problema con un "vietato l'ingresso" e non governando il fenomeno con serietà e senso di responsabilità. Ci può soccorrere, permettendo di governarlo in sicurezza, soltanto il principio che ci si realizza con gli altri. Che vuol dire far crescere - sul serio e presto - possibilità di lavoro e di benessere nei Paesi in cui le persone hanno poco o nulla, perché, in concreto, il loro benessere coincide pienamente con il nostro benessere. Con la nostra civiltà, e senza rinunciare ad essa, sconfiggeremo anche i terroristi. Che seminano morte per tentare di cambiare i nostri cuori e le nostre menti. È questa una sfida per gli Stati democratici. Ma anche per le religioni. Il dialogo tra le fedi è oggi una necessità storica, è una condizione per conquistare la pace. Il dialogo tra le fedi è un atto di umiltà, che può riconciliarci con la storia dell'uomo. È questo un tema di grande valore spirituale, che ha fortissime implicazioni politiche e sociali. Dialogo tra credenti di religioni diverse, dialogo sul destino dell'uomo tra credenti e non credenti: ecco un terreno sul quale la cultura europea può dare, ancora una volta, un apporto straordinario. Il nostro Paese ha un grande contributo da offrire all'Europa, al Mediterraneo, al mondo, in questo tempo così complicato e, peraltro, affascinante come in realtà ogni tempo. Essere e sentirsi italiani è un privilegio. Vorrei dirlo anzitutto ai giovani: dovete sentire la responsabilità, ma anche apprezzare la bellezza di quanto avete nelle vostre mani. Il talento non va nascosto sotto terra, ma investito con coraggio. L'Italia siete voi, è fatta dai giovani che come voi, in tante parti del Paese, stanno mettendo in gioco le loro qualità, le loro idee, le loro esperienze. La scelta della Repubblica, con il suo patto di cittadinanza tra popolo e istituzioni, ci ha permesso di crescere in libertà, coesione, benessere, garantiti da un lunghissimo periodo di pace. Usate la vostra libertà per costruire un futuro migliore. Non restate a guardare. La casa comune, in realtà, è già la vostra. Sergio Mattarella