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La crescita dell’economia meridionale nel triennio 2015-2017, trainata dagli investimenti privati, ha solo parzialmente recuperato il patrimonio economico e anche sociale disperso dalla crisi nel Sud.
Secondo il Rapporto SVIMEZ 2018, presentato mercoledì primo agosto con la
presenza del Ministro per il Sud Barbara Lezzi presso la sede di via di Porta
Pinciana 6 a Roma, nello sviluppo del mezzogiorno manca il contributo
della spesa pubblica e c’è forte disomogeneità tra l regioni del sud Italia con Calabria, Sardegna e Campania che registrano il più alto
tasso di sviluppo. L’occupazione
è in leggero aumento ma è debole e precaria con il disagio che è in aumento tra
famiglie in povertà assoluta e lavoratori poveri. Tra i
principali contenuti anche il nuovo dualismo demografico: meno giovani, meno
Sud, la limitazione dei diritti di cittadinanza, il divario nei servizi
pubblici. Nel 2017 il Mezzogiorno ha proseguito la
lenta ripresa, ma in un contesto di grande incertezza rischia di frenare, il
PIL è aumentato al Sud dell’1,4%, rispetto allo 0,8% del 2016 e ciò grazie al
forte recupero del settore manifatturiero (5,8%), in particolare nelle attività
legate ai consumi, e, in misura minore, delle costruzioni (1,7%). La crescita è stata solo marginalmente
superiore nel Centro-Nord (+1,5%).
RIPRESA
TRAINATA DA INVESTIMENTI PRIVATI Gli
investimenti privati nel Mezzogiorno sono cresciuti del 3,9%, consolidando la
ripresa dell’anno precedente: l’incremento è stato lievemente superiore a
quello del Centro-Nord (+3,7%). La
crescita degli investimenti al Sud ha riguardato tutti i settori, ma rispetto
ai livelli precrisi, gli investimenti fissi lordi sono cumulativamente nel
Mezzogiorno ancora inferiori del -31,6% (ben maggiore rispetto al Centro-Nord,
-20%). È preoccupante,
invece, la contrazione della spesa pubblica corrente nel periodo 2008-2017,
-7,1% nel Mezzogiorno, mentre è cresciuta dello 0,5% nel resto del Paese.
FORTE
DISOMOGENEITA’ DELLA RIPRESA NELLE REGIONI Il
triennio di ripresa 2015-2017 conferma che la recessione è ormai alle spalle
per tutte le regioni italiane e tuttavia gli andamenti sono alquanto
differenziati. Il
grado di disomogeneità, sul piano regionale e settoriale, è estremamente
elevato nel Mezzogiorno dove, nel 2017, Calabria, Sardegna e Campania sono le
regioni meridionali che fanno registrare il più alto tasso di sviluppo,
rispettivamente +2%, +1,9% e +1,8% anche se si tratta di variazioni del PIL
comunque più contenute rispetto alle regioni del Centro-Nord, se confrontate al
+2,6% della Valle d’Aosta, al +2,5% del Trentino-Alto Adige, al +2,2% della
Lombardia. In Calabria, la regione che l’anno scorso ha fatto
segnare la più significativa accelerazione della crescita, nel periodo
2015-2017 sono state soprattutto le costruzioni a trainare la ripresa (+12% nel
triennio), grazie anche alle opere pubbliche realizzate con i fondi europei,
seguite dall’agricoltura (+7,9%) e dall’industria in senso stretto (+6,9%).
Molto più modesto nell’ultimo triennio l’andamento dei servizi (+2,9%). La Sardegna, uscita con qualche incertezza dalla fase
recessiva rispetto al resto delle regioni meridionali, dopo l’andamento
negativo del prodotto nel 2016 (-0,6%), ha fatto registrare nel 2017 un significativo
+1,9%. Nel triennio 2015-2017 è stata soprattutto l’industria in senso stretto
a marcare un andamento decisamente positivo (+12,9%), mentre le costruzioni si
attestano su un +3,1% e i servizi su +3%. Va, invece, decisamente male
l’agricoltura, che segna -4,2% nel triennio. In Campania, dopo la revisione dell’andamento del PIL
del 2016 (che scende da +2,4% a +1,5%), il 2017 è stato un anno in cui il
prodotto lordo ha continuato a crescere dell’1,8%, confermando nel triennio di
ripresa un importante dinamismo. Nella regione sono andate molto bene le
costruzioni (+16,5% nel 2015-2017), spinte dalle infrastrutture finanziate con
i fondi europei, ma anche l’industria in senso stretto prosegue la sua corsa
(+8,9% negli ultimi tre anni), grazie soprattutto alla spinta dei Contratti di
Sviluppo, gran parte dei quali ha riguardato proprio la Campania. I servizi
fanno segnare nel triennio un più modesto +3,7%, per merito in particolare del
turismo. Mentre l’agricoltura va in controtendenza e accusa una flessione tra
2015 e 2017 pari a -1,3%. La Puglia,
che nel 2016 aveva molto frenato (+0,2%) rispetto al positivo andamento del
2015 (+1%), rialza la testa e il PIL regionale nel 2017 si attesta a +1,6%, merito,
in particolare, dell’industria delle costruzioni, anche in questo caso trainata
dalla spesa dei fondi europei per le opere pubbliche (+11,5%), ma anche da
un’intonazione positiva dell’industria in senso stretto (+9,4%). L’agricoltura
pugliese, pur con i problemi che ha vissuto e che continua ad avere, fa
registrare una performance positiva (+4% nel triennio) mentre sono
sostanzialmente stazionari i servizi, che registrano un modesto +0,7%. L’Abruzzo rialza la testa, nel 2017, con un PIL che
cresce dell’1,2%: aveva fatto registrate appena +0,3% nel 2015 e +0,2% nel
2016. La ripresa è dovuta soprattutto all’agricoltura (+9% nel triennio), e in
parte anche all’industria in senso stretto (+3,8%). I servizi segnano un più
modesto incremento del +2%, mentre le costruzioni, in controtendenza rispetto
al resto del Sud, vanno male: la loro performance tra il 2015 e il 2017 è
negativa, -14,5%. La Basilicata si attesta su un incremento del PIL
modesto, +0,7% nel 2017, dopo la forte accelerazione della crescita negli anni
scorsi: addirittura +8,9% nel 2015, +1,3% nel 2016. Va notato che l’industria
lucana è in forte ripresa già dal 2014 e continua a trainare l’economia
regionale, sia pure con intensità diverse, nel triennio, al termine del quale
registra una performance molto positiva (+47% nel 205-2017). Nel periodo, vanno
bene anche le costruzioni (+18,3%) mentre sia i servizi (1,3% nel triennio) che
l’agricoltura (-1,2%) appaiono in controtendenza rispetto al resto
dell’economia meridionale. La Sicilia, invece, fa segnare un rallentamento
della crescita, +0,4% nel 2017, dopo aver registrato un aumento del PIL dell’1%
nel 2016 e dello 0,9% nel 2015. Nell’Isola l’industria in senso stretto fa
segnare nel triennio di ripresa una performance importante (+14,1%), anche
l’agricoltura fa registrare un andamento complessivamente positivo (+2%) e così
i servizi (+1,6%). A frenare l’andamento dell’economia siciliana, così come in
Abruzzo, è il settore delle costruzioni che fa segnare il -6,3% nel periodo
2015-2017. L’unica regione meridionale che nel 2017 ha fatto
registrare un andamento negativo del PIL è il
Molise, -0,1%, che, era cresciuto dell’1,3% nel 2015 e dell’1,1% nel
2016. L’economia del Molise è stata sostenuta nel 2015-2017 dalle costruzioni
(+26,4%), ma l’industria in senso stretto fa registrare una performance
particolarmente negativa (7,4%). I servizi nel triennio registrano un +2%,
mentre langue l’agricoltura (+0,4%).
PREVISIONI
2018 E
2019: RISCHIO
FRENATA SENZA POLITICHE ADEGUATE In base alle previsioni elaborate dalla SVIMEZ, nel
2018, il PIL del Centro-Nord dovrebbe crescere dell’1,4%, in misura maggiore di
quello delle regioni del Sud +1%. I consumi totali interni pesano sulla
differente dinamica territoriale (+1,2% nel Centro Nord e + 0,5% nel Sud), in
particolare i consumi della P.A., che segnano +0,5% nel Centro-Nord e -0,3% nel
Mezzogiorno, ma è soprattutto nel 2019 che si rischia un forte rallentamento
dell’economia meridionale: la crescita del prodotto sarà pari a +1,2% nel
Centro-Nord e +0,7% al Sud, in due anni, un sostanziale dimezzamento del tasso
di sviluppo. Il rallentamento “tendenziale” dell’economia
meridionale nel 2019 è stimato dalla SVIMEZ, in un contesto di neutralità della
policy, in attesa della Nota di aggiornamento al DEF e della Legge di Bilancio.
In assenza di una politica adeguata, anche l’anno prossimo il livello degli
investimenti pubblici al Sud dovrebbe essere inferiore di circa 4,5 miliardi se
raffrontato al picco più recente (nel 2010). Se, invece, nel 2019 fosse
possibile recuperare per intero questo gap, favorendo in misura maggiore gli
investimenti infrastrutturali di cui il Sud ha grande bisogno, ciò darebbe
luogo a una crescita aggiuntiva di quasi un punto percentuale (+0,8%), rispetto
a quella prevista (appena un +0,7%), per cui il differenziale di crescita tra
Centro-Nord e Mezzogiorno sarebbe completamente annullato, anzi, sarebbe il Sud
a crescere di più, con beneficio per l’intero Paese.
STRETTA
INTERDIPENDENZA NORDSUD Centro-Nord
e Mezzogiorno crescono o arretrano insieme con la crescita del Mezzogiorno, al
di là della rilevanza dei fattori locali, che pure hanno una loro rilevanza, che
è fortemente influenzata dall’andamento dell’economia nazionale, e viceversa.
La crescita del Centro-Nord, al di là della sua maggiore integrazione nei
mercati internazionali, è altrettanto dipendente, per diverse ragioni, dagli
andamenti del Mezzogiorno. Lo dimostra il fatto che nel periodo 2000-2016 le
due macro-aree hanno condiviso la stessa dinamica stagnante del PIL pro capite:
+1,1% in media annua. Basti pensare che, in base ai calcoli della SVIMEZ, 20
dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle regioni meridionali
dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e
servizi.
IL
MEZZOGIORNO CHE SOFFRE ANCORA. UNA
CITTADINANZA “LIMITATA”: LAVORO, DISUGUAGLIANZE E DIRITTI DI
CITTADINANZA Il
ritmo di crescita è del tutto insufficiente ad affrontare le emergenze sociali
nell'area e anche nella ripresa si allargano le disuguaglianze: aumenta
l’occupazione, ma vi è una ridefinizione al ribasso della sua struttura e della
sua qualità: i giovani sono tagliati fuori, aumentano le occupazioni a bassa
qualifica e a bassa retribuzione, pertanto la crescita dei salari risulta
“frenata” e non in grado di incidere su livelli di povertà crescenti, anche
nelle famiglie in cui la persona di riferimento risulta occupata. Il divario
nei servizi pubblici, la cittadinanza “limitata” connessa alla mancata garanzia
di livelli essenziali di prestazioni, incide sulla tenuta sociale dell’area e
rappresenta il primo vincolo all’espansione del tessuto produttivo.
OCCUPAZIONE IN RIPRESA, MA DEBOLE E
PRECARIA È
proseguita nel 2017, sia pur con un rallentamento a fine anno, la crescita
dell’occupazione: nel Mezzogiorno aumenta di 71 mila unità (+1,2%) e di 194
mila nel Centro-Nord (+1,2%), ma al Sud è ancora insufficiente a colmare il
crollo dei posti lavoro avvenuto nella crisi: nella media del 2017
l’occupazione nel Mezzogiorno è di 310 mila unità inferiore al 2008, mentre nel
complesso delle regioni del Centro-Nord è superiore di 242 mila unità. Nel
corso del 2017 l’incremento dell’occupazione meridionale è dovuto quasi
esclusivamente alla crescita dei contratti a termine (+61 mila, pari al +7,5%)
mentre sono stazionari quelli a tempo indeterminato (+0,2%). Vi è stata una
brusca frenata di questi ultimi rispetto alla crescita del 2,5% nel 2016, il
che dimostra che stanno venendo meno gli effetti positivi degli sgravi
contributivi per le nuove assunzioni al Sud. In questi anni si è profondamente ridefinita la
struttura occupazionale, a sfavore dei giovani, testimoniata
dall’invecchiamento della forza lavoro occupata. Il dato più eclatante è il
drammatico dualismo generazionale: il saldo negativo di 310 mila occupati tra
il 2008 e il 2017 al Sud è la sintesi di una riduzione di oltre mezzo milione
di giovani tra i 15 e i 34 anni (-578 mila), di una contrazione di 212 mila
occupati nella fascia adulta 35-54 anni e di una crescita concentrata quasi
esclusivamente tra gli ultra 55enni (+470 mila unità).
L’AMPLIAMENTO
DEL DISAGIO SOCIALE, TRA FAMIGLIE IN POVERTÀ ASSOLUTA E LAVORATORI
POVERI Nel
Mezzogiorno si delinea una netta cesura tra dinamica economica che, seppur in
rallentamento, ha ripreso a muoversi dopo la crisi, e una dinamica sociale che
tende ad escludere una quota crescente di cittadini dal mercato del lavoro,
ampliando le sacche di povertà e di disagio a nuove fasce della popolazione. Il
numero di famiglie meridionali con tutti i componenti in cerca di occupazione è
raddoppiato tra il 2010 e il 2018, da 362 mila a 600 mila (nel Centro-Nord sono
470 mila). Il numero di famiglie senza alcun occupato è cresciuto anche nel
2016 e nel 2017, in media del 2% all’anno, nonostante la crescita
dell’occupazione complessiva, a conferma del consolidarsi di aree di esclusione
all’interno del Mezzogiorno, concentrate prevalentemente nelle grandi periferie
urbane. Si tratta di sacche di crescente emarginazione e degrado sociale, che
scontano anche la debolezza dei servizi pubblici nelle aree periferiche. Preoccupante
la crescita del fenomeno dei working
poors: la crescita del lavoro a bassa retribuzione, dovuto a complessiva
dequalificazione delle occupazioni e all’esplosione del part time involontario,
è una delle cause, in particolare nel Mezzogiorno, per cui la crescita
occupazionale nella ripresa non è stata in grado di incidere su un quadro di
emergenza sociale sempre più allarmante.
NUOVO
DUALISMO DEMOGRAFICO: PIÙ MORTI CHE NATI, MENO GIOVANI, MENO SUD Nel
2017 la popolazione italiana ammonta a 60 milioni e 660 mila unità, in
ulteriore calo di quasi 106 mila unità. È come se sparisse da un anno all’altro
una città italiana di medie dimensioni. La popolazione diminuisce malgrado
aumentino gli stranieri: nel 2017 il calo è stato di 203 mila unità a fronte di
un aumento di 97 mila stranieri residenti.
Il peso demografico del Sud diminuisce ed è ora pari al 34,2%, anche per
una minore incidenza degli stranieri (nel 2017 nel Centro-Nord risiedevano
4.272 mila stranieri rispetto agli 872 mila stranieri nel Mezzogiorno). Negli
ultimi 16 anni hanno lasciato il Mezzogiorno 1 milione e 883 mila residenti: la
metà giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati, il
16% dei quali si è trasferito all’estero. Quasi 800 mila non sono tornati. Anche
nel 2016, quando la ripresa economica ha manifestato segni di consolidamento,
si sono cancellati dal Mezzogiorno oltre 131 mila residenti. Tra le regioni
meridionali, sono la Sicilia, che perde 9,3 mila residenti (-1,8 per mille), la
Campania (-9,1 mila residenti, per un tasso migratorio netto di -1,6 per mille)
e la Puglia (-6,9 mila residenti, per un tasso migratorio netto pari a -1,7),
quelle con il saldo migratorio più negativo. I DIRITTI DI CITTADINANZA LIMITATI AL SUD,
IL DIVARIO NEI SERVIZI PUBBLICI Ancora
oggi al cittadino del Sud, nonostante una pressione fiscale pari se non
superiore per effetto delle addizionali locali, mancano (o sono carenti)
diritti fondamentali: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di
sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari
e di cura per la persona adulta e per l’infanzia. In particolare, nel comparto socioassistenziale
il ritardo delle regioni meridionali riguarda sia i servizi per l’infanzia che
quelli per gli anziani e per i non autosufficienti. Più in generale, l’intero
comparto sanitario presenta differenziali in termini di prestazioni che sono al
di sotto dello standard minimo nazionale come dimostra la griglia dei Livelli
Essenziali di Assistenza nelle regioni sottoposte a Piano di rientro: Molise,
Puglia, Sicilia, Calabria e Campania, sia pur con un recupero negli ultimi
anni, risultano ancora inadempienti su alcuni obiettivi fissati. I dati sulla
mobilità ospedaliera interregionale testimoniano le carenze del sistema
sanitario meridionale, soprattutto in alcuni specifici campi di
specializzazione, e la lunghezza dei tempi di attesa per i ricoveri. Le regioni
che mostrano i maggiori flussi di emigrazione sono Calabria, Campania e
Sicilia, mentre attraggono malati soprattutto la Lombardia e l’Emilia-Romagna.
I lunghi tempi di attesa per le prestazioni specialistiche e ambulatoriali sono
anche alla base della crescita della spesa sostenuta dalle famiglie con il
conseguente impatto sui redditi. Strettamente collegato è il fenomeno della
“povertà sanitaria”, secondo il quale sempre più frequentemente l’insorgere di
patologie gravi costituisce una delle cause più importanti di impoverimento
delle famiglie italiane, soprattutto nel Sud: nelle regioni meridionali sono il
3,8% in Campania, il 2,8% in Calabria, il 2,7% in Sicilia; all’estremo opposto
troviamo la Lombardia con lo 0,2% e lo 0,3% della Toscana. I divari si confermano anche per quel che riguarda
l’efficienza degli uffici pubblici in termini di tempi di attesa all’anagrafe,
alle ASL e agli uffici postali. La SVIMEZ ha costruito un indice sintetico
della performance delle Pubbliche
Amministrazioni nelle regioni sulla base della qualità dei servizi pubblici
forniti al cittadino nella vita quotidiana: fatto 100 il valore della regione
più efficiente (Trentino-Alto Adige) emerge che quelle meridionali, ad
eccezione della Campania che si attesta a 61, della Sardegna a 60 e
dell’Abruzzo a 53, sono al di sotto della metà: Calabria 39, Sicilia 40, Basilicata 42, Puglia 43. Nel 2017 il
Mezzogiorno ha proseguito la, seppur lenta, ripresa. Ma, avverte Svimez nelle
anticipazioni del Rapporto 2018 presentate questa mattina a Roma, se si
manifestasse un contesto di grande incertezza nel 2019 l’economia del Sud
rischierebbe una «grande frenata». La crescita nel triennio 2015-2017 ha
infatti solo in parte recuperato il patrimonio economico e sociale
disperso dalla crisi. È una ripresa, quella del Sud, sbilanciata: trainata
dagli investimenti privati, mentre manca il contributo della spesa
pubblica. Il lavoro manifesta dei punti di
grande debolezza. Il numero di famiglie meridionali con tutti i componenti
in cerca di occupazione è raddoppiato tra il 2010 e il 2018, da 362
mila a 600 mila (nel Centro-Nord sono 470 mila). Le aree di esclusione sono concentrate
nelle grandi periferie urbane: sono «sacche di crescente emarginazione e
degrado sociale, che scontano anche la debolezza dei servizi pubblici». Al Sud
l’occupazione è sì aumentata, ma quella di «bassa qualifica e bassa
retribuzione», e «i giovani sono tagliati fuori». Non solo: la crisi ha
colpito soprattutto i giovani under 35: «il saldo negativo di 310 mila
occupati tra il 2008 e il 2017 al Sud è la sintesi di una riduzione di oltre
mezzo milione di giovani tra i 15 e i 34 anni (-578 mila), di una contrazione
di 212 mila occupati nella fascia adulta 35-54 anni e di una crescita
concentrata quasi esclusivamente tra gli ultra 55enni (+470 mila unità).
Insomma, «si è profondamente ridefinita la struttura occupazionale, a sfavore
dei giovani».
Secondo Svimez, nel 2018 il Pil del Centro-Nord dovrebbe crescere
dell’1,4%, in misura maggiore di quello delle regioni del Sud (+1%). I
consumi totali interni pesano sulla differente dinamica territoriale (+1,2% nel
Centro-Nord e + 0,5% nel Sud), in particolare i consumi della Pubblica
Amministrazione, che segnano +0,5% nel Centro-Nord e -0,3% nel Mezzogiorno. Ma
è soprattutto nel 2019 che si rischia un forte rallentamento
dell’economia meridionale: la crescita del prodotto sarà pari a +1,2% nel Centro-Nord
e +0,7% al Sud. In due anni, un sostanziale dimezzamento del tasso di
sviluppo. È
possibile ragionare sulla base di due scenari. Il primo è caratterizzato da una
policy neutrale, in attesa della Nota di aggiornamento al DEF e della
legge di Bilancio. In questa ipotesi, senza una politica adeguata,
l’Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno prevede un
rallentamento tendenziale dell’economia meridionale nel 2019. C’è però un secondo scenario: se nel 2019 venissero
favoriti in misura maggiore gli investimenti infrastrutturali di cui il
Sud ha grande bisogno, il risultato sarebbe una crescita aggiuntiva di quasi un
punto percentuale (+0,8%), rispetto a quella prevista (appena un +0,7%), per
cui il differenziale di crescita tra Centro-Nord e Mezzogiorno sarebbe
completamente annullato, anzi, sarebbe il Sud a crescere di più, con
beneficio per l’intero Paese. In generale, c’è una forte disomogeneità tra le
regioni del Mezzogiorno: nel 2017, Calabria, Sardegna e Campania registrano
il più alto tasso di sviluppo. Cresce l’occupazione ma è debole e precaria.
E in più si amplia il disagio sociale, tra famiglie in povertà assoluta e
lavoratori poveri. Forte recupero del manifatturiero
Al di là di quello che potrebbe accadere nel 2018 e nel 2019, la lenta ripresa
dell’economia del Sud prosegue: nel 2017 il Pil del Mezzogiorno è
aumentato dell’1,4%, rispetto allo 0,8% del 2016. Ciò grazie al forte recupero
del settore manifatturiero (5,8%), in particolare nelle attività legate ai
consumi, e, in misura minore, delle costruzioni (1,7%). La crescita è stata
solo marginalmente superiore nel Centro-Nord (+1,5%). Gli
investimenti privati nel Mezzogiorno sono cresciuti del 3,9%,
consolidando la ripresa dell’anno precedente: l’incremento è stato lievemente
superiore a quello del Centro-Nord (+3,7%). La crescita degli investimenti al
Sud ha riguardato tutti i settori. Ma rispetto ai livelli precrisi, gli
investimenti fissi lordi sono cumulativamente nel Mezzogiorno ancora inferiori
del -31,6% (ben maggiore rispetto al Centro-Nord, -20%). Preoccupante,
sottolinea Svimez, la contrazione della spesa pubblica corrente nel
periodo 2008-2017, -7,1% nel Mezzogiorno, mentre è cresciuta dello 0,5% nel
resto del Paese. Cresce solo
il lavoro precario
È proseguita nel 2017, sia pur con un rallentamento a fine anno, la crescita
dell’occupazione: nel Mezzogiorno aumenta di 71 mila unità (+1,2%) e di 194
mila nel Centro-Nord (+1,2%). Ma al Sud è ancora insufficiente a colmare il
crollo dei posti lavoro avvenuto nella crisi: nella media del 2017
l'occupazione nel Mezzogiorno è di 310 mila unità inferiore al 2008, mentre nel
complesso delle regioni del Centro-Nord è superiore di 242 mila unità. Nel
corso del 2017 l’incremento dell’occupazione meridionale è dovuto quasi esclusivamente
alla crescita dei contratti a termine (+61 mila, pari al +7,5%) mentre sono
stazionari quelli a tempo indeterminato (+0,2%). Vi è stata una brusca frenata
di questi ultimi rispetto alla crescita del 2,5% nel 2016, il che dimostra che
stanno venendo meno gli effetti positivi degli sgravi contributivi per le nuove
assunzioni al Sud. Negli ultimi
16 anni ha lasciato il Sud la metà dei giovani tra 15 e 34 anni
C’è un ultimo dato che fa riflettere. Negli ultimi 16 anni hanno lasciato il
Mezzogiorno 1 milione e 883mila residenti: la metà giovani di età compresa tra
i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati, il 16% dei quali si è trasferito
all’estero. Quasi 800 mila non sono tornati. Anche nel 2016, quando la ripresa
economica ha manifestato segni di consolidamento, si sono cancellati dal
Mezzogiorno oltre 131 mila residenti. Tra le regioni meridionali, sono la
Sicilia, che perde 9,3 mila residenti (-1,8 per mille), la Campania (-9,1 mila
residenti, per un tasso migratorio netto di -1,6 per mille) e la Puglia (-6,9
mila residenti, per un tasso migratorio netto pari a -1,7), quelle con il saldo
migratorio più negativo. Il consolidamento della lenta ripresa dell’economia
del Mezzogiorno dipenderà anche dalla capacità di offrire delle opportunità ai
giovani.