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Da voci inascoltate, a casse di risonanza della volontà (quasi) totalitaria dei rispettivi paesi, grazie alla loro lungimiranza e soprattutto ad una tenacia incrollabile. Ma i tratti comuni fra i due leader non finiscono qui
Può
piacere o non piacere, certo è che, nel Bel paese, un politico come Matteo
Salvini mancava da tempo immemorabile. Esistono migliori oratori, certo, ma il
leader della Lega è comunque tra i più incisivi: pragmatico ma lineare, asciutto
ma esaustivo, pacato ma determinato e con quel pizzico di volgarità che lo fa
apparire un uomo del popolo, “da tutti i giorni”. E, in effetti, proprio questa
sembra essere la sua grande attitudine: attirare consenso e far sentire
l’elettore parte di qualcosa di grande, portandolo ( anche per mezzo dell’uso
quotidiano dei social network), all’interno delle istituzioni e nei loro
meccanismi decisionali. Matteo Salvini può piacere o non piacere, ma,
diciamocelo sinceramente, ai più piace. Le tematiche possono essere più o meno
fondanti, il pensiero politico più o meno condivisibile ma il leit motiv: “se
voi mi sostenete, vado avanti contro tutto e tutti” crediamo sia quello che
ogni cittadino si aspetti da un rappresentante politico.
Non è
sempre stato così. La Lega, come il suo attuale segretario federale, ha un
passato di grandi intuizioni. Tuttavia non mancano dèbacle clamorose. Ci fu
inoltre un tempo (non molto lontano) in cui Salvini, lungi dal essere “l’uomo
della provvidenza”, appariva, semmai, come “la voce inascoltata fuori dal coro”.
Quando la sensibilità collettiva era più orientata al: “scappano dalla guerra,
è inumano non accoglierli tutti” o “bisogna fare sacrifici, ce lo chiede
l’Europa”, il leghista, con il piglio di un novello Churchill, era uno dei
pochi a tuonare contro una politica migratoria lassista e indiscriminata e
contro un’austerità di cui oggi si può dire tutto, ma non che abbia aiutato a
sanare i bilanci statali. Già, proprio Churchill. Salvini ricorda molto
l’inglese, più di altri personaggi storici a cui, con intento denigratorio, è
spesso accostato. Conservatore per quanto riguarda tradizioni e politica fiscale,
liberale ( a tratti social-democratico) su lavoro e welfare, ma soprattutto
estremo difensore degli interessi del paese e della collettiva che ha giurato
di rappresentare, nonostante i “se” e i “ma” degli alleati di qualsiasi colore.
Salvini si prende la responsabilità delle sue scelte anche quando potrebbe
farla scendere verso il basso o salire verso l’alto (“INDAGATE ME! Sono io che
non voglio che altri clandestini sbarchino in Italia”), Salvini da
l’impressione di essere più interessato alle persone che non alla sostenibilità
del debito, non è pretenzioso nel vestire, si mostra a suo agio tra la folla a
cui non parla da un balcone, ma, in più occasioni, da sopra uno sgabello, nella
più verace tradizione anglosassone.
Salvini, a differenza di
Berlusconi (e molto prima ancora di Mussolini), non si erge a guida, a “uomo
forte” che ha la verità delle cose in tasca, non è nulla di più che un semplice
“padre di famiglia”, preferisce ascoltare attentamente le esigenze degli
addetti ai lavori – che siano nell’organico della polizia penitenziaria o dei vigili
del fuoco - nel più completo rispetto della loro professionalità, piuttosto che
imporre loro un suo modus operandi. Salvini non è duce, ma capitano, e lo è perché,
come il più umile tra i rematori, non ha nulla da offrire “se non sangue,
fatica, lacrime e sudore”