E se tornasse la "naja"? testimonianza di Remigio, ex alpino della Brigata Cadore
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- 23 gennaio 2018
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E se tornasse la "naja"?
Il servizio militare raccontato attraverso la testimonianza di Remigio, ex alpino 53enne della Brigata Cadore. "Quattro mesi di servizio civile o militare per insegnare ai nostro ragazzi spirito di sacrificio, spirito civico e l'uso delle armi". Questa pare essere una delle proposte del candidato premier leghista Matteo Salvini. In pochi, in questa occasione, hanno tacciato l'iniziativa come nazionalista e mil...
E se tornasse la "naja"?
Il servizio militare raccontato attraverso la testimonianza di Remigio, ex alpino 53enne della Brigata Cadore. "Quattro mesi di servizio civile o militare per insegnare ai nostro ragazzi spirito di sacrificio, spirito civico e l'uso delle armi". Questa pare essere una delle proposte del candidato premier leghista Matteo Salvini. In pochi, in questa occasione, hanno tacciato l'iniziativa come nazionalista e militarista. Nessuna distorsione mediatica quindi, probabilmente perché le generazioni che hanno ricevuto la famosa "cartolina" percepiscono un gap di valori molto ampio che le separa dai giovani. Parte di questa "crisi" etico/sociale dei ragazzi di oggi è per loro imputabile proprio al non aver fatto il militare. Ma com'era la vita in caserma? Non sono passati nemmeno 15 anni dalla sua sospensione, e già il servizio militare assume, nell'immaginario collettivo, un'attitudine mitopoietica. Abbiamo deciso di ripercorrere questa esperienza attraverso un'intervista a Remigio, ex alpino congedato sergente.
Quando hai fatto il servizio militare? Ero nell'ottavo scaglione dell'83, quindi sono passati un po' di anni e magari la mia memoria non sarà così cristallina. Spero di essere sufficientemente preciso.
Ci spieghi come funzionava? Ti arrivava una lettera a casa? Ricevevi una lettera in cui era scritto che avevi l’età per il servizio militare. Dovevi andare a fare le visite mediche. Io, se non ricordo male, le ho fatte al distretto militare di Padova. La visita era normalissima e serviva per verificare se godevi in generale di buona salute ed eri sottoposto ad un colloquio nel quale ti chiedevano le tue esperienze pregresse e le attitudini che ritenevi di avere. Poi, qualche mese dopo, mi è arrivata una lettera con la conferma della mia idoneità e una cartolina, mi pare azzurra: dovevo presentarmi alla caserma Salsa di Belluno per il CAR.
Sarebbe? L'addestramento delle reclute. Alla Salsa c'era il centro d'addestramento, la compagnia comando e la compagnia controcarri, a cui poi sarei stato destinato.
Raccontaci un po' l'approccio alla vita in caserma. Non era come me lo sarei aspettato. Eravamo tutti in fila fuori dalla caserma, una fila lunghissima. Io venivo da un paesino di montagna, ma molti arrivavano dalle città. Gran parte di questi portava i capelli lunghi e sarebbe stato per loro traumatico il momento in cui i barbieri, anche loro militari, avrebbero tagliato loro tutti quei ricci con la macchinetta. La cosa che più mi ha stupito è che chi al di fuori delle mura sembrava più ardito, per non dire smargiasso, sarebbe diventato quasi sicuramente l’elemento debole della catena. Il motto della Cadore era: “Alti come pini, forti come torri, uniti come catene”, a significare che il lavoro di squadra è tutto per ogni unità tattica. Dopo aver tagliato i capelli con la macchinetta – sono quasi sicuro di non aver visto forbici – ci consegnarono un borsone pieno di tutto il vestiario necessario.
Com’era la giornata tipo? Questo dipende un po’ dal periodo e dai mesi di servizio. La mattina c’era la sveglia, non ricordo precisamente se alle 6 o alle 6 e mezza. Bisognava disfare il letto, fare un quadrato riponendo in ordine le coperte e ripiegando su se stesso il materasso, quello che è noto come il famoso “cubo”. Se eri recluta capitava che i “nonni” ti obbligassero a fare anche il loro letto, e magari ti toccava fare anche tre o quattro cubi in una mattina. Poi doccia, solo quella con l’acqua calda, barba e tutto il resto delle pratiche. Scendevamo in cortile per il saluto alla bandiera e l’adunata, in cui un ufficiale superiore controllava se eri in ordine e se ti eri rasato bene. Se non eri stato sufficientemente attento al tuo aspetto, “stavi punito”: in pratica ti veniva revocata la libera uscita o la licenza. Dopo l’adunata, indossavamo le scarpe da ginnastica, pantaloni e maglietta a maniche corte. Correvamo e facevamo esercizio, su per giù, fino all’ora di colazione, verso le 8. Finita la colazione, durante il periodo del CAR, praticamente marciavamo tutto il giorno. Imparavi anche a smontare a pulire l’arma: noi avevamo il Garand, un fucile americano della seconda guerra mondiale. Nel corso della giornata le mansioni potevano variare. Quando ero caporale e quindi ero già nella compagnia controcarri, durante la mattinata passavamo gran parte del tempo a studiare gli armamenti e i mezzi corazzati, ma non è detto che non dovessi fare i servizi.
Cosa sono i servizi? I servizi consistevano nella pulizia della caserma. La cosa sconvolgente è che, pur con sanitari vecchi e spartani, non ho mai visto bagni più puliti che in caserma. Ogni cosa era fatta e gestita dai soldati. Non c’erano esterni che pulivano. Noi eravamo i responsabili del buon andamento della struttura.
Qual è secondo te la cosa più brutta del militare? Per la mia esperienza, sicuramente la guardia in polveriera. La polveriera è un deposito di munizioni di tutti i tipi: dai proiettili di fucile, fino alle bombe. Era un periodo molto teso, c’erano stati degli attentati in Alto Adige ed eravamo molto sul “chi vive”. Il compito era snervante. Io, che ero caporale, accompagnavo i soldati a prendere la loro posizione di guardia. Chi faceva la guardia, la doveva fare per quattro ore, poi un’ora di sonno, poi altre quattro ore e così via. Si arrivava anche a tre turni, ed era veramente stancante. Avevi il colpo in canna, quindi eri consapevole che potevi dover sparare sul serio. Gli ufficiali di picchetto erano veramente severi in polveriera. Non potevi sgarrare.
E la cosa più bella? Il corso di tiro: avevi un libretto in cui segnavano quanti bersagli riuscivi a colpire e sparavi con diverse tipologie di armi, dal fucile - quando diventai caporale mi cambiarono il Garand con il Fal, che era un fucile più leggero e moderno - alla mitragliatrice, passando per il cannone, il 106. In generale facevi un sacco di marce all’aria aperta, soprattutto durante il campo estivo. A me piacevano e non mi sembravano particolarmente faticose, ma mi ricordo i miei commilitoni emiliani che erano un lamento unico. Però loro si facevano perdonare quando tornavano in caserma dalla licenza e offrivano in camerata ogni ben di Dio.
E per quanto riguarda il “nonnismo”? Diciamo che il nonnismo era la prassi durante il servizio militare ed era anche implicitamente incentivato dai comandi, secondo l’opinione di molti. Finché non era nulla di particolarmente umiliante e pericoloso, nessun problema. Ricevere un gavettone di pipì non è il tipo di nonnismo che mi piaceva, ma essere rinchiuso in un armadietto ed essere costretto ad intrattenere i “nonni” con il tuo canto armonioso, che loro chiamavano juke box, poteva anche starmi bene. In generale, non sono stato vittima di episodi di nonnismo eclatanti e pochi di noi dell’ottavo scaglione lo praticavano con quelli del nono.
Cosa ti ha lasciato il servizio militare? È stato il periodo più bello della mia vita. Ho legato moltissimo con gli altri e io sono un tipo burbero, che sta sulle sue. Sono entrato in caserma che ero un ragazzo e sono uscito da uomo. L’anno di militare, per quanto mi riguarda, è servito a maturarmi come cinque anni da civile non avrebbero potuto fare. Sembrano frasi fatte, me ne rendo conto. Ma posso assicurare che il 90 per cento di coloro che hanno vissuto quest’esperienza, la pensano esattamente come me. Ti senti parte di qualcosa di più grande e impari a prendere la tua vita in mano.
Quindi saresti favorevole al ritorno della naja? Assolutamente. Giulio Maria Grisotto