PARISI (CHE SOMIGLIA PIÙ AD AMATO CHE A CRAXI) PUÒ FARCELA MA IL SUO VERO PROBLEMA SI CHIAMA BERLUSCONI
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- 16 settembre 2016 Italia Partiti politici centro-destra
PARISI (CHE SOMIGLIA PIÙ AD AMATO CHE A CRAXI) PUÒ FARCELA MA IL SUO VERO PROBLEMA SI CHIAMA BERLUSCONI L’ingresso di Stefano Parisi sulla scena politica nazionale merita di essere guardato con attenzione e interesse, senza pregiudizi. Nello stesso tempo, diciamo subito che si guadagnerà il nostro apprezzamento solo ad alcune precise condizioni. Scriviamo in occasione della sua convention, ma senza esserne presenti – banalmente, non siamo stati invitati – e senza che essa si sia conclusa, e d...
PARISI (CHE SOMIGLIA PIÙ AD AMATO CHE A CRAXI) PUÒ FARCELA MA IL SUO VERO PROBLEMA SI CHIAMA BERLUSCONI L’ingresso di Stefano Parisi sulla scena politica nazionale merita di essere guardato con attenzione e interesse, senza pregiudizi. Nello stesso tempo, diciamo subito che si guadagnerà il nostro apprezzamento solo ad alcune precise condizioni. Scriviamo in occasione della sua convention, ma senza esserne presenti – banalmente, non siamo stati invitati – e senza che essa si sia conclusa, e dunque quel che ci è dato giudicare è solo quanto accaduto fin qui, dopo che il buon successo alle comunali a Milano, pur non diventando sindaco, ha indotto Parisi a trasformare quell’occasione mancata (forse con suo sollievo) in una chance politica a tutto tondo. Prima di tutto occorre rispondere con chiarezza ad un paio di domande: Parisi intende ristrutturare la vecchia casa di Forza Italia o vuole costruirne una nuova? E nell’uno come nell’altro caso, ha intenzione di ripristinare il condominio del fu centro-destra o ha altri propositi? Il mandato che gli ha dato Berlusconi parla chiaro: fai il commissario straordinario di quel che rimane di Forza Italia. Ma è quel che serve? Noi crediamo di no. Il tema non è ridar fiato ad un partito (si fa per dire) che non ha alcuna chance di sopravvivere al suo fondatore proprio perché è nato, anche dal punto di vista giuridico, monocratico e privato, ma è ereditare quel che rimane e riconquistare quel che è perduto del consenso di quegli italiani moderati che, dopo aver consentito alla Dc di governare per l’intera Prima Repubblica, hanno scelto che intorno alla figura del Cavaliere nascesse e rimanesse in vita per due decenni la Seconda Repubblica (di cui oltre la metà con Berlusconi primo ministro). È la maggioranza relativa (spesso silenziosa) del Paese, che oggi ingrossa le fila dell’astensionismo e, in parte, del voto “contro” (5stelle). Gente delusa e amareggiata, preda di paure che la crisi economica e le questioni internazionali (soprattutto emigrazione e terrorismo) hanno moltiplicato. Si tratta di andare incontro a questo popolo – quello che fa il (poco) pil che ancora produciamo – e offrirgli la chance di un progetto di ricostruzione, morale e pratica, dell’Italia, dopo avergli finalmente raccontato la verità su questi ultimi 25 anni di declino inesorabile. Per farlo non si può né avere con sé il fardello di ciò che rimane della vecchia classe dirigente (si fa sempre per dire) – non per “nuovismo”, una delle malattie che hanno prodotto le tossine del declino di cui peraltro Parisi ci sembra esente, ma per evidente contraddizioni tra fini e mezzi – né avere la palla al piede di Berlusconi. Si dirà: ma, come dicono anche i sondaggi, ancora oggi il vecchio Silvio dispone di un bacino di voti indispensabili per vincere, e dunque da lui non si può prescindere. Diffidiamo dei sondaggi (dei sondaggisti, in realtà), ma non mettiamo in dubbio l’ipotesi che il Cavaliere abbia ancora un certo numero di fan. Tuttavia, la possibilità di riconquistare l’intera platea dei moderati, a nostro giudizio, è condizionata in modo imprescindibile dalla capacità di consegnare loro una spiegazione credibile di quanto è successo in questi anni – non per alimentare il già straripante fiume del “denuncismo”, che inevitabilmente sfocia nell’antipolitica, ma per fornire una cura derivante da una seria diagnosi – e in quella spiegazione non può non esserci posto, e pure molto rilevante, per gli errori e le omissioni di Berlusconi e per una netta presa di distanza dalla sua concezione leaderistica e aziendalista della politica. Insomma, quella di Berlusconi è per Parisi una eredità ingombrante, cui deve saper rinunciare. Siamo però consapevoli che, detto ciò, rimane aperto il tema del pacchetto di voti berlusconiani. Ma qui valgono due osservazioni. La prima è cinica ma fondata: sarà Berlusconi a doversene preoccupare. Nel senso che se il tentativo Parisi dovesse prendere corpo e avere successo, il fondatore di Forza Italia quei voti non potrà che metterli al servizio del nuovo arrivato. Ma per Parisi un conto è partire da quelli, altro è che quelli arrivino suo malgrado. D’altra parte, è proprio quello che fece Berlusconi nel 1994 con gli ex Dc e Psi: li tirò a bordo, ma solo dopo aver affermato mediaticamente la sua discesa in campo, e il tutto passò quasi inosservato. L’altra osservazione ci porta a dare risposta alla seconda delle due domande iniziali: Parisi intende ripristinare il vecchio centro-destra o ha una proposta politica diversa? Anche qui dipende dalla diagnosi. Se il referto del “malato Italia” recita, come noi crediamo debba fare, che una della cause fondamentali del declino italico è il bipolarismo malato che il Paese si è dato – così ammalato da aver prodotto un tripolarismo in cui la maggioranza relativa rischia seriamente di andare all’antipolitica – allora non può che conseguirne che il nuovo soggetto politico che si candida a intercettare il voto moderato deve assolutamente evitare di ricacciarsi (e ricacciarci) nello schema “centro-destra” contro “centro-sinistra”. Per come conosciamo (bene) Parisi, sappiamo che non ha la vocazione della contrapposizione, e immaginiamo che le dure parole con cui Salvini ha accompagnato la convention milanese gli abbiano fatto piacere perché gli tolgono l’imbarazzo di dover essere lui a mandare a spigolare il neo-lepenista che non ha pudore neppure di fronte alla morte (Ciampi). Tuttavia, Parisi su questo – come peraltro sul punto precedente – è fin qui stato vago. “Siamo alternativi a Renzi”, dice, ma senza specificare perché e con quali forze. Certo, il No di Parisi al referendum è sacrosanto – non per antipatia a Renzi, ma perché la riforma è pessima e non è vero che è meglio una cattiva (ma anche mediocre) riforma piuttosto che una non riforma – ma questo non significa che esso debba diventare la piattaforma su cui costruire una linea di contrapposizione a Renzi. Le forze moderate e quelle riformiste (ammesso che l’attuale Pd rappresenti queste ultime) devono trovare motivi di convergenza e alleanza, e crediamo di capire che quando Parisi parla di “fine della stagione dell’odio” proprio questo intenda. Solo che, almeno finora, non ha avuto il coraggio (o la forza) di rendere esplicito quello che noi riteniamo sia il suo vero pensiero. Ma se vorrà rompere gli schemi – e per imporsi non può non romperli – dovrà sparigliare, e uscire con una proposta innovativa. Parisi è sì un uomo che viene dal business, ma al contrario di Berlusconi da del tu alla politica e ne rispetta le regole auree, conosce la leadership politica vera (vide da vicino quella del Psi) abbastanza per non cadere nella trappola di volersi fare il partito personale (non a caso parla di squadra come superamento del leaderismo becero di questi anni). Non è però un trascinatore di folle, e questo potrebbe renderlo – per rimanere alla metafora socialista – più un Giuliano Amato che un Bettino Craxi. Ma non importa. Oggi la politica italiana ha bisogno di tutto e di tutti, se vuole rinascere. tratto da
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