1918-2018: il centenario della Vittoria.

1918-2018: il centenario della Vittoria. Caporetto: vile tradimento o sconfitta pronosticabile? Sono passati cent’anni dal Piave e dal Grappa. Sono passati cent’anni dalle mitopoietiche gesta dei ragazzi del ‘99 che, nei giorni successivi a Caporetto, caricarono lo zaino in spalla, cinsero in un lungo abbraccio la madre piangente e partirono per il fronte, “lasciando la morosa con gli altri a far l’amor”. Li aspettava un compito gravoso, un dovere improrogabilmente categorico e vincolante, ch...

1918-2018: il centenario della Vittoria. Caporetto: vile tradimento o sconfitta pronosticabile? Sono passati cent’anni dal Piave e dal Grappa. Sono passati cent’anni dalle mitopoietiche gesta dei ragazzi del ‘99 che, nei giorni successivi a Caporetto, caricarono lo zaino in spalla, cinsero in un lungo abbraccio la madre piangente e partirono per il fronte, “lasciando la morosa con gli altri a far l’amor”. Li aspettava un compito gravoso, un dovere improrogabilmente categorico e vincolante, che aleggiava greve nell’aria: fermare l’avanzata dell’invasore austro-tedesco o sacrificare onorevolmente la propria vita, provandoci. Ci riuscirono. Riuscirono ad adempiere stoicamente ad una missione che, nell’opinione pubblica (decisamente catastrofistica) dell’epoca, sembrava impossibile. E proprio per questo motivo, in quasi tutte le città dello stivale, troviamo una via intitolata ai “Ragazzi del ‘99”. C’è però un’altra storia, una storia ulteriore e parallela, poco considerata, ma ugualmente gloriosa e degna di essere raccontata. Sì perché, nell’eroica resistenza e poi nella controffensiva che portò alla vittoria finale, durante le lunghe veglie in trincea e nel corso dei sanguinosi assalti alla baionetta, la classe di leva del 1899, ebbe, come commilitoni, tanti ragazzi del ‘98, del ‘97, del ‘96. Questi ultimi non furono mai partecipi della “fortunata” epopea di chi aveva avuto il battesimo del fuoco sul fiume veneto “Sacro alla patria”. Non nell’immaginario collettivo italiano, almeno. Pur condividendo la stessa sorte dei primi, questi uomini ebbero, dalla “vulgata” che si fece “storia”, un trattamento sicuramente deteriore. Nel corso dell’ultimo anno e mezzo di guerra, vennero additati (dagli stessi vertici del Regio esercito) come vigliacchi e traditori, poi, una volta “scagionati” da postume ricostruzioni e analisi storico-militari, non furono comunque ritenuti degni di riappropriarsi, nemmeno di un “pezzetto”, della gloria dei loro ideali successori. Questa damnatio memoriae è sintomatica del modo in cui, tutt’ora, nelle aule di scuola, è insegnata, spiegata, “liquidata” la battaglia di Caporetto. La “disfatta” di Caporetto. Perfino nel nostro linguaggio quotidiano “una Caporetto” è tutt’ora sinonimo di un disastro confusionario, di una caotica baraonda. La sconfitta di Caporetto piombò sugli alti comandi con l’imponderabile irruenza di un temporale estivo, tanto da far subito parlare di: “tradimento di Caporetto”. Basti pensare che la celeberrima “canzone” o “leggenda del Piave”, nella sua stesura originale, presentava il verso: “Ma in una notte triste si parlò di tradimento”. In epoca fascista, fu invece appurato che il reparto a cui si attribuì la sconfitta, venne sterminato da un attacco all’iprite, quindi il testo fu modificato - in realtà più perché sconveniente all’ideale di “virtus” a cui il milite italico avrebbe dovuto rispondere, che per una vera e propria riabilitazione morale – con il più autentico: “Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento”. Oggi, per contro, la storiografia scolastica enumera, tra le principali cause di Caporetto, la disaffezione e addirittura la condanna alla guerra da parte del soldato italiano, quasi che quello che era stato “il leone” dell’Isonzo e “il conquistatore” di Gorizia, avesse deciso estemporaneamente di gettare il fucile e mettersi ad intrecciare collane di fiori o che, comunque sia, avesse ormai la consapevolezza che “la disfatta” sarebbe giunta a breve. Siamo italiani: ottimi cuochi, genio e sregolatezza in arti e mestieri, ma troppo teneri, impreparati ed egoisti per essere militari valorosi. In realtà, sia sul fronte occidentale che su quello orientale, ci furono altre “Caporetto”, analoghe strutturalmente, magari diverse per numero di perdite, (la stessa Marne, per la forte valenza simbolica, è equiparabile al nostro Piave), ma sicuramente incomparabili, per quanto riguarda la percezione sociale fortemente stigmatizzante per gli sconfitti. In termini di scienza militare, le linee di rifornimento, decisamente allungate, avevano portato ad un sensibile indebolimento della capacità offensiva italiana. Per non annoiare il lettore poco avvezzo a meccanismi polemologici, delineiamo la battaglia, come un attacco in cui piccoli reparti d’assalto dell’esercito austro - tedesco, con il compito di sfondare nei punti più deboli del nostro schieramento e penetrare svariati chilometri dietro le nostre linee (creando il cosiddetto “caos logistico”), furono lanciati contro le divisioni italiane e riuscirono - portandosi ovviamente dietro centinaia di migliaia di fanti - in un’avanzata ben oltre le aspettative degli Imperi centrali. Attraversando l’intera valle dell’Isonzo, incalzarono il Regio esercito, in ritirata, fino alla linea difensiva Monte Grappa – Piave. Ritirata quindi, non rotta. E proprio il sacrificio di molti reparti (più di diecimila uomini) della “Seconda” - i futuri “traditori”- permise alle restanti armate di ripiegare in buon ordine. La “vulgata” su Caporetto, il sedimentarsi delle fatalistiche paure e dello scetticismo atavico di un intero popolo su di una sconfitta, pur tragica, ma perfettamente in linea con l’economia del primo conflitto mondiale, trafugò a migliaia di caduti italiani, l’unico possedimento che nemmeno la morte era riuscita a strappargli via: il loro onore. Giulio Maria Grisotto